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Di Emanuele Botta

Quante volte vi è capitato di stupirvi del riuscire a capire come si sentiva una persona al primo sguardo? Quante volte vi è capitato che venisse fatto altrettanto con voi ad esempio, talvolta anche provando quella strana sensazione di sentirsi in qualche modo scoperti, messi a nudo, anche senza che ci fosse una conoscenza precedente o comunque intima con quella persona?
Avete mai girato lo sguardo altrove per la paura di ciò che avreste potuto vedere sul volto di chi avete davanti? O avete mai cercato lo sguardo di qualcuno nella speranza che cogliesse il vostro e reagisse di conseguenza capendovi al volo?

Tutti questi nostri comportamenti indicano che, oltre le parole, sul nostro viso e con il nostro viso trasmettiamo delle informazioni che sembrano avere davvero molto potere all’interno del nostro mondo relazionale. Ma di che informazioni si tratta? Soprattutto come mai siamo capaci di leggerle o generarle in modo spontaneo e naturale?

Era il 1967 quando un giovane ricercatore psicologo americano di nome Paul Ekman, nel tentativo di rispondere a queste domande, si recò per la prima volta sull’isola di Papua Nuova Guinea, nelle South East Highlands, per studiare una tribù indigena ferma ad uno stadio di sviluppo di livello paleolitico (circa 2 milioni e mezzo di anni fa): i Fore.

All’epoca e ancora oggi esistevano diversi modelli di lettura del linguaggio delle emozioni espresse nell’uomo, di cui due in particolare contrapposizione:

L’obiettivo con cui Ekman si recò presso i Fore era il seguente: dimostrare che il modello culturale era quello corretto.

Per dimostrare questa tesi serviva osservare un gruppo di esseri umani che non fosse venuto in contatto con alcuna forma di cultura occidentalizzata, altrimenti alcuni gesti o modi di esprimersi potevano essere stati involontariamente acquisiti e poteva essere avvenuta una sorta di “contaminazione culturale”.

Partendo da questi presupposti, ci si aspettava dunque di trovare nei Fore una serie di comportamenti non verbali peculiari non riscontrabili in altre culture, o anche nessun “segno non verbale” simile o avente significato simile a quelli già riscontrati ad esempio nella cultura di provenienza di Ekman.

La scoperta con cui Ekman tornò a casa lo sconvolse profondamente poichè rimise in discussione l’intera ipotesi di partenza con cui aveva avviato la ricerca. Alcune espressioni facciali legate a situazioni che rievocavano precise emozioni, risultavano essere le stesse individuate in soggetti occidentali. Nel 1969 Ekman vi tornò con un team di ricercatori tra cui il compagno di molte scoperte Wally Friesen per definire e classificare ulteriormente quanto rilevato.
Ciò che ne emerse da successivi approfondimenti fu la seguente scoperta: esistono 7 emozioni primarie, anche dette “universali”, che vengono espresse con le medesime espressioni facciali in tutti i soggetti osservati nei molteplici studi coinvolgenti culture di tutto il mondo, inclusa la tribù primitiva dei Fore.

Queste 7 emozioni sono: felicità, rabbia, paura, tristezza, disprezzo, disgusto e sorpresa.

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La ragione di questo fenomeno risiede nelle radici del DNA che tutti noi, in quanto appartenenti alla specie umana, condividiamo con il nostro prossimo di qualunque etnia o nazionalità egli sia.
Molte ricerche sull’epigenetica (branca della biologia molecolare che studia le mutazioni genetiche e la trasmissione di caratteri ereditari non riscontrati nel DNA “originale”) hanno dimostrato come determinati comportamenti, se ripetuti nel tempo molto a lungo (centinaia di anni se non migliaia) e funzionali alla sopravvivenza dell’individuo, si codifichino all’interno del nostro DNA arrivando a costituire una sorta di bagaglio di conoscenza innato che si possiede senza bisogno di apprenderlo nuovamente; questo ad un livello basilare naturalmente, poi coltivare e raffinare queste abilità spetta a noi.

Il fatto che questo sia avvenuto nell’uomo con le emozioni e le espressioni facciali cosa ci dice? Semplicemente che l’essere umano, per poter sopravvivere e divenire la specie dominante su questo pianeta, ha avuto bisogno di unirsi costantemente in “branchi”. Era fondamentale poter comunicare l’uno con l’altro attraverso segnali essenziali che permettessero di potersi relazionare a prescindere dal linguaggio verbale, ancora non codificato come lo conosciamo oggi, e primordialmente per lo più composto di suoni e versi.

Vedere e riconoscere che chi avevamo accanto era triste ci permetteva di capire che aveva bisogno di vicinanza, che c’era stata una perdita di qualcosa, forse un “cucciolo d’uomo” che andava cercato. Mostrare paura a chi avevamo accanto e vederla riconosciuta, ci permetteva di segnalare la presenza di un pericolo e ricevere aiuto. Riconoscere felicità nell’altro ci permetteva di comunicare che qualcosa che stava avvenendo era positivo, o che eravamo predisposti ad accogliere e avvicinarci riducendo il rischio di conflitti e consolidando le unioni tra i membri del gruppo e quindi la forza del gruppo stesso.

Senza queste emozioni primarie e questa capacità di esprimerle e riconoscerle universalmente l’uomo, isolato dai suoi simili e fisicamente inferiore agli altri animali, probabilmente oggi sarebbe estinto.
Questa scoperta non solo è stata rivoluzionaria per le scienze comportamentali per evidenti ragioni tecniche di lettura e comprensione dell’essere umano e della sua natura, ma anche perché ha portato tutti i membri della specie umana sullo stesso piano di esistenza, superando barriere raziali e culturali.

Questo effetto è analogo a quello di cui parlava Totò nella sua poesia “ ’A Livella ”, in cui la morte era quell’unico elemento che, quando arrivava, poneva ogni essere umano alla stessa altezza, ignorando lo stato sociale, la razza, la cultura o la ricchezza accumulata nel tempo.

Le emozioni universali rappresentano allo stesso modo una livella, ma una livella che è vita: pongono ogni essere umano al pari del suo prossimo e ci rendono essenziali l’uno all’altro ricordandoci ancora oggi questa necessità.
Questo legame unico e antico busserà alla nostra porta ogni qual volta sentiremo di dover voltare lo sguardo da un’altra parte per evitare di confrontarci con il vissuto di chi abbiamo davanti: dentro di noi sappiamo che, se ci guardassimo in volto, alcune informazioni non potrebbero fare a meno di entrare e colpirci. Queste informazioni si chiamano emozioni e, per quanto le stiamo conoscendo sempre di più, siamo purtroppo sempre meno capaci di gestirle e tollerarle.

Autore

Emanuele Botta

Psicologo clinico e Psicoterapeuta specializzato in analisi Transazionale Socio-cognitiva. Specializzato nel metodo scientifico di Paul Ekman di analisi del comportamento emotivo e di valutazione della credibilità presso la Paul Ekman International, applica l’analisi comportamentale in ambito clinico-terapeutico e aziendale per la gestione dei conflitti e l’analisi dei comportamenti nelle relazioni. Svolge attività formativa allo scopo di aumentare la consapevolezza personale e la capacità empatica, componenti essenziali per una società funzionale ed emotivamente intelligente.