Di Emanuele Botta

Le relazioni sul posto di lavoro e loro gestione sono forse la sfida più grande che ci ritroviamo ad affrontare ogni mattina e iniziamo la nostra giornata lavorativa. Il benessere delle organizzazioni è fortemente condizionato dalla qualità delle relazioni che instauriamo e troviamo sul posto di lavoro. 

La performance stessa e la produzione di un intero reparto o azienda può arrivare a risentire del malessere che può generarsi quando la qualità dei rapporti nel luogo in cui lavoriamo è compromessa; che sia con i dirigenti, con i dipendenti o con i colleghi, poca è la differenza poiché da una cattiva relazione cui non ci si può sottrarre nasce comunque una forma di stress che, a lungo termine, diviene dannosa tanto per il corpo quanto per la mente.

Le relazioni sul posto di lavoro celano questa potente clausola che li differenzia sostanzialmente da tutte le altre: sono costanti, quotidiane e quasi mai abbiamo facoltà di sottrarci liberamente da esse, ossia evitare chi non ci piace e frequentare chi ci piace. Persino in famiglia ci si può ogni tanto preservare da incontri più o meno spiacevoli trovando una scusa, simulando malessere o altro, ma sul posto di lavoro no, poiché ogni evitamento o atteggiamento “anomalo” sappiamo che può comunque comprometterci o ritorcersi contro di noi.

Gerarchia: dal greco derivato di hierárkhēs, composito di hieros "sacro" e árkhō "presiedere" o "essere capo".

Come è possibile dedurre dall’etimologia della parola stessa, la gerarchia è un sistema organizzativo che sottende la presenza di un rapporto di supremazia e subordinazione di tipo piramidale.

In presenza di gerarchia la gestione relazionale dunque si complica ulteriormente, soprattutto in quei settori in cui vige una struttura gerarchica molto rigida, come ad esempio le forze armate, o in quei contesti in cui vi è forte squilibrio di potere, anche per condizioni lavorative o contrattuali, tra la classe manageriale e i dipendenti. Il rischio in questi contesti di sovrapporre la differenza di ruolo alla condotta relazionale umana è molto alto.

Per spiegare in che modo questo può avvenire può essere utile osservare il modello della così detta OKNESS proposto nell’Analisi Transazionale. Per OKness si intende un modello che classifica quattro possibili posizioni esistenziali che noi possiamo assumere a livello relazionale nel corso della nostra vita, a seconda di come percepiamo noi stessi e di come percepiamo l’altro.

Com’è possibile osservare le 4 posizioni esistenziali nascono dalla combinazione della considerazione che abbiamo di noi e dell’altro come OK o Non OK.

A seconda del ruolo da noi posseduto all’interno del nostro contesto lavorativo può essere più o meno facile cadere all’interno di posizioni squilibrate e relazionalmente disfunzionali.

Nella posizione IO SONO OK TU SEI OK io ho una percezione di me globalmente positiva. Vi è un apprezzamento di sé consapevole ed essenziale, che tiene conto dei propri punti di forza e delle proprie fragilità o aree di miglioramento, senza confonderle col proprio valore umano; allo stesso modo sono quindi in grado di trasferire questa accoglienza di me anche all’esterno, riconoscendo il valore imprescindibile dell’altro in quanto essere umano, dotato a sua volta di forze e debolezze da cui non scaturisce un giudizio. 

Sul posto di lavoro questa posizione va con il riconoscimento reciproco della propria umanità a prescindere dalla gerarchia vigente. Le relazioni sono cordiali, vengono date direttive in modo rispettoso, vi è accoglienza della diversità e discussione nel merito delle opere fatte e delle competenze e non delle persone. Vi è uno stile comunicativo assertivo: affermo con convinzione il mio pensiero non perché lo ritengo migliore di quello degli altri, ma perché gli do valore e lo ritengo meritevole di ascolto.

Nella posizione IO NON SONO OK TU SEI OK io ho una percezione di me negativa e tendente all’autosvalutazione in favore di chi ho davanti. Vi è un costante rapporto di confronto dal quale io esco perdente in quanto persona inferiore. Non vi è una percezione realistica di sé e del proprio valore che viene svilito e di conseguenza, seppur in direzione opposta, non vi è percezione realistica neanche del valore dell’altro, che invece viene idealizzato. 

Sul posto di lavoro questa posizione va con la passività e la paura di sbagliare o deludere. Si tende a chiedere di essere costantemente verificati, rallentando il proprio operato o fermandolo del tutto con demando di delega che può essere molto frequente. Non si esprime il proprio parere perché lo si considera inferiore a quello degli altri, come la fonte da cui proviene. Vi è uno stile comunicativo passivo: non parlo, faccio molte pause, evito di esprimere o controbattere, mi lascio sottomettere senza reagire.

Nella posizione IO NON SONO OK TU NON SEI OK io ho una percezione tutto sommato equilibrata di me e dell’altro, tuttavia è un equilibrio improntato su una svalutazione totale di tutto e tutti. È la posizione “depressiva” per eccellenza in cui “tanto tutto va male e tutti vanno peggio”. Qualcuno potrebbe dire che questa posizione può essere altrettanto valida quanto la posizione IO SONO OK TU SEI OK, posizione che invece può risultare naif e illusoria, e che sia solo una questione di punti di vista. Per quanto a mio avviso ciò sia opinabile e le posizioni esistenziali si leghino al valore della persona in quanto essere umano vivente, e non in quanto essere capace o competente, riporto qui giocosamente uno scambio di battute tra Brignano e Gassman nel film “Un Natale per due”: “Per me un’ottimista è solo un cretino felice” “Beh, sempre meglio di un pessimista che è un cretino triste”.

Sul posto di lavoro questa posizione si può manifestare con condotte a volte anche difficili da riscontrare poiché passivo-aggressive quali ad esempio: presenteismo (venire al lavoro ma non produrre o produrre molto al di sotto delle proprie possibilità) o assenteismo. Questo avviene poiché tale posizione è altamente negativistica e con carattere potenzialmente sabotante ed auto-sabotante: “Nulla merita, nulla vale, perché sforzarsi?”.

Nella posizione IO SONO OK TU NON SEI OK, al contrario della precedente, io ho una percezione idealizzata di me e profondamente svalutante verso il prossimo. Per quanto questa posizione possa sembrare dicotomica, ossia in netta contrapposizione, anche qui può essere prezioso acuire il nostro sguardo andando oltre le apparenze e osservando il reale processo che sottostà una posizione del genere: vi è anche qui una profonda difficoltà nel relazionarsi in modo paritetico ma, semplicemente, si manifesta in forme differenti. 

Volendo semplificare la cosa, a mio avviso vi è ben poca differenza tra l’abbassare lo sguardo davanti a qualcuno o urlare a qualcuno davanti a noi di abbassare lo sguardo perché, in entrambi i casi, vi è comunque paura nel guardare l’altro negli occhi.

Sul posto di lavoro questa posizione è abbastanza facile da identificare poiché i comportamenti sono spesso manifesti attraverso: critiche rivolte alla persona e non al lavoro svolto (pensate alla differenza tra le formule “hai fatto una stupidaggine” e “sei uno stupido”), demansionamento immotivato o sovramansionamento dei subordinati, ipercontrollo del lavoro svolto da parte di terzi, rigidità in merito al proprio modo di fare e vedere. Lo stile comunicativo è aggressivo, ipercritico, svalutante o denigrante (condotte di molestia o sessiste rientrano in questa categoria). In questi casi vi è alto rischio di denunce per reati quali: mobbing, straning, abuso di potere o molestie.

relazioni mondo lavoro

Nei rapporti gerarchizzati il rischio di arrivare a togliere valore a chi riveste un ruolo subordinato al nostro è molto alto, soprattutto perché questo può avvenire in modo implicito non tanto attraverso la comunicazione verbale, ossia le parole dette, ma attraverso gesti, espressioni facciali, timbro della voce, in poche parole comportamenti non verbali e paraverbali che denotano implicitamente una svalutazione. 

Ciò avviene quando perdiamo di vista che la differenza che subentra sul posto di lavoro non è legata a CHI SIAMO, bensì al RUOLO CHE ABBIAMO. Confondiamo il nostro nome con il nostro titolo, e questo può avvenire sia in senso positivo “grande titolo grande persona” che negativo “piccolo titolo piccola persona”.

Tenendo a mente le posizioni esistenziali sopra-riportate è possibile provare ad osservarsi e chiedersi se a volte, anche involontariamente, ci siamo un po’ allontanati da quella posizione esistenziale “IO SONO OK TU SEI OK”, posizione che in fondo tutti vorremmo avere con gli altri e che gli altri avessero con noi, e di conseguenza migliorarci.

È bene ricordare che questo modello, come tutti quelli proposti in questo blog, non guarda alle intenzioni, ma ai comportamenti, così come fanno le persone che abbiamo davanti perciò, se decidete di provare ad applicarli non calzateli sul “ciò che intendevo fare”, ma su “ciò che ho fatto”: uno schiaffo è uno schiaffo e una carezza è una carezza.

Autore

Emanuele Botta

Psicologo clinico e Psicoterapeuta specializzato in analisi Transazionale Socio-cognitiva. Specializzato nel metodo scientifico di Paul Ekman di analisi del comportamento emotivo e di valutazione della credibilità presso la Paul Ekman International, applica l’analisi comportamentale in ambito clinico-terapeutico e aziendale per la gestione dei conflitti e l’analisi dei comportamenti nelle relazioni. Svolge attività formativa allo scopo di aumentare la consapevolezza personale e la capacità empatica, componenti essenziali per una società funzionale ed emotivamente intelligente.