Di Emanuele Botta

Guardandosi indietro nel nostro percorso è facile incappare in ricordi che, rivisitati alla luce del momento presente, facciano sorgere in noi la frase: “Avrei voluto dire o fare questo, ma non ci sono riuscito”, oppure “Mi sentivo pronto ma poi non sono riuscito a pensare in quel momento e mi sono bloccato”. Il lato positivo è che tutto questo è perfettamente normale, quello meno positivo è che la frustrazione che segue questo pensiero, perché quel momento è andato e non è modificabile o recuperabile, è ahimè altrettanto reale. Ciò che possiamo fare è imparare da quella esperienza, capirla, comprendere noi stessi in quel contesto e il perché del nostro comportamento, per poi ridurre al meglio delle nostre possibilità il rischio che la medesima situazione si verifichi nuovamente.

Quando si tratta di prime esperienze, o di circostanze in cui riteniamo la posta in gioco sia molto alta, il livello di stress percepito aumenta e di conseguenza il nostro corpo si prepara ad affrontare la situazione attivandosi e accumulando energia. Le ghiandole surrenali avviano la produzione di una serie di sostanze (adrenalina, noradrenalina ed ormoni steroidei) che interagiscono con il nostro organismo predisponendolo all’azione. Osservandola in questo modo lo stress diviene dunque un fattore positivo e, poiché la situazione di cui stiamo parlando è un colloquio di lavoro o un primo appuntamento, il tutto dovrebbe procedere in maniera discretamente fluida. La nostra performance dovrebbe oltretutto incrementare, proprio per via di queste extra energie messe a disposizione dal corpo. Dovremmo essere quindi, più capaci di portare a termine il compito, poiché lo affrontiamo nel migliore dei modi. 

Tuttavia, noi sappiamo che non è così. Spesso al contrario, in queste circostanze che per noi rappresentano prime esperienze o primi incontri con persone nuove, la nostra performance si indebolisce. Invece di velocizzarsi, la nostra capacità di pensiero rallenta, la respirazione diviene affannata e la temperatura corporea aumenta, avviando un processo di sudorazione. Ci blocchiamo e disperdiamo energie in molte forme fuorché quella che vorremmo. Le sostanze sopracitate, che potenziano il nostro organismo, vengono secrete in eccesso e il nostro corpo si attiva entrando in uno stato di arousal (o risveglio, eccitazione) che degenera poi in un iperarousal.

In queste condizioni la nostra capacità di pensare in modo efficacie, quella che viene spesso definita come la nostra “lucidità”, è compromessa. Notiamo che non riusciamo a fare le cose come vorremmo, così il compito diventa più arduo e di conseguenza richiediamo involontariamente più energie al corpo, che a sua volta si attiva e si sovraccarica.

Se perciò tutto è legato alle emozioni, come possiamo fare? In che modo in questa matassa di stress incontrollato il nostro pensiero può esserci utile invece che restare intrappolato? 

Forse il punto è proprio questo, il nostro pensiero non resta intrappolato in qualcosa che si è creato al di fuori del suo controllo. Quella iper-attivazione in realtà nasce proprio dal nostro pensiero, da quel momento in cui, prima di quel primo appuntamento e di quel primo colloquio, noi abbiamo dato una chiave di lettura della situazione trasformandola e rendendola per noi di rilevanza estrema e quindi minacciosa in caso di fallimento.

  • Il primo appuntamento con una persona diventa l’occasione della mia vita di essere felice con qualcuno, deve andare bene per forza;
  • La possibilità di non piacere diviene il confermare forse una voce dentro di noi che ci dice che non siamo persone amabili di per sé;
  • Il colloquio di lavoro diviene la mia unica opportunità di concretizzare qualcosa o di sistemarmi nella vita, devo assolutamente avere successo;
  • Il non essere assunto diviene non circostanza di un fallimento, ma conferma di essere un fallito.

Come potete osservare da questi esempi, tutte le letture vengono effettuate alla luce di un pensiero distorto che generalizza, catastrofizza e personalizza in modo estremo l’esito di quei possibili avvenimenti. 

Leggendo una situazione del genere dall’esterno, se noi osservassimo una persona reagire in modo così impacciato a un colloquio e notassimo che inizia a balbettare, arrossire e sudare, senza neanche essere stato attaccato o provocato, penseremmo che stia avendo una reazione palesemente esagerata. Se però entrassimo nella sua testa e trovassimo delle frasi come quelle elencate poco fa, frasi così potenti e minacciose, probabilmente la nostra impressione cambierebbe: cosa c’è di strano in un essere umano che sussulta impacciato e profondamente nervoso, difronte a una situazione che deciderà se etichettarlo come un fallito o no?

primocolloquio interago

Il nostro corpo non impazzisce, si fida della nostra lettura della realtà e cerca di assisterci come può, siamo noi che a un certo punto, presi nel vortice di ciò che proviamo e sentiamo, ci dimentichiamo che quel vortice lo abbiamo auto-generato e ne finiamo vittime. Ci sentiamo oppressi della tachicardia e del nostro respiro accelerato, dimenticando che ciò avviene perché io ho detto a me stesso e al mio corpo che non sto andando a conoscere “Chiara” o “Marco” per la prima volta per curiosità, ma mi sto giocando l’occasione di essere felice; non ho detto a me stesso che sto andando a fare un colloquio che è UNA delle mie possibilità e in caso, come ho organizzato questo ne organizzerò altri, ma mi sto giocando LA possibilità di trovare lavoro e il ruolo di fallito o di persona di successo nella mia vita. La posta in gioco cresce esponenzialmente, le energie che io chiedo sono enormi, il corpo prova a offrirmele ma io in realtà non posso sfruttarle e così mi saturo e implodo andando in sovraccarico.

Esiste un’alternativa, ovvero chiamare le cose con il loro nome: “appuntamento”, “colloquio” e definirle come possibilità piuttosto che come ultimatum. Farlo può sembrare molto difficile ma, per tornare a volte con i piedi per terra e prendere questi momenti con più leggerezza e serenità, forse può essere d’aiuto ricordare alcuni momenti più seri della nostra vita, dove la nostra incolumità o quella di persone a cui teniamo è stata davvero in pericolo; ricordarci cosa abbiamo provato in quei momenti, la fatica fatta per uscire da situazioni profondamente difficili e il sollievo per averle superate o viste superate, ridistribuendo i pesi sulla bilancia della nostra vita in modo da poter trasformare questi primi momenti in qualcosa che non solo non è pericoloso, ma è persino godibile. Ciò ovviamente senza sfociare nel menefreghismo, altrettanto disfunzionale, ma essenzialmente specchio della medesima paura.

Il primo appuntamento può divenire la scoperta di un nuovo essere umano e quindi di una nuova parte di noi stessi in un nuovo confronto. Un colloquio di lavoro può divenire l’occasione di mostrare le nostre competenze, il nostro valore professionale e non quello personale, una sfida per perfezionarci. 

Tenere a mente che nessuna di queste singole esperienze definirà e comprenderà la nostra persona ma, se vorremo, ci darà solo un’occasione in più per definirci e comprenderci.

Autore

Emanuele Botta

Psicologo clinico e Psicoterapeuta specializzato in analisi Transazionale Socio-cognitiva. Specializzato nel metodo scientifico di Paul Ekman di analisi del comportamento emotivo e di valutazione della credibilità presso la Paul Ekman International, applica l’analisi comportamentale in ambito clinico-terapeutico e aziendale per la gestione dei conflitti e l’analisi dei comportamenti nelle relazioni. Svolge attività formativa allo scopo di aumentare la consapevolezza personale e la capacità empatica, componenti essenziali per una società funzionale ed emotivamente intelligente.